Se
non sapete cosa fare stasera, andate al cinema!! Vi aspetta “La città incantata”, capolavoro di Hayao Miyazaki, vincitore di un Orso d’oro a Berlino nel 2002 e di un Oscar nel 2003. Questo film d’animazione
ha ottenuto un successo internazionale senza precedenti ed è oggi famoso in
tutto il mondo; proprio ad esso si deve la notorietà raggiunta dal regista giapponese,
ormai amatissimo anche in Italia. È inoltre il primo, prodotto dallo Studio Ghibli, ad essere stato
interamente colorato e masterizzato in formato digitale, seppur piegando la
computer grafica alle esigenze dell’animazione tradizionale.
La
trama, che parrebbe prendere elementi sparsi sia da “Le avventure di Pinocchio”
(specie nelle scene iniziali che sembrano ritrarre un paese dei balocchi un po’
fatiscente, ma soprattutto nella trasformazione in maiali degli ingordi genitori
della protagonista) sia da “Alice nel paese delle meraviglie”, è liberamente
ispirata a un romanzo della scrittrice Sachiko
Kashiwaba, “Il meraviglioso paese oltre la nebbia” (edito in Italia da
Kappa Edizioni). La storia è incentrata sul personaggio della giovane Chihiro,
che, smarrendosi nella città incantata del titolo (nient’altro che un impianto
termale per kami, cioè le divinità
del pantheon shintoista), compie un vero e proprio viaggio di crescita e
formazione: da bambina pigra, viziata e fifona quale era (aggiungerei anche di
estrazione medio borghese, come si può dedurre dalla macchina del padre targata
Audi e dalla shopper di Kinokuniya
sul sedile posteriore, una catena di supermercati non esattamente economica),
diventa più matura, coraggiosa e soprattutto in grado di trovare delle
soluzioni per fronteggiare le difficoltà della vita.
In questo percorso però
non è mai sola, anzi, sono molti i personaggi chiave che la aiutano durante il
cammino: vorrei farvi notare come Chihiro, superate le diffidenze iniziali, si
integri molto rapidamente all’interno della struttura termale presso cui è
impiegata, un riflesso dell’importanza data alle relazioni sociali che l’eroe
deve intessere per dotarsi di un sostegno nel raggiungimento dei propri
obiettivi, ma non solo, anche dell'opinione che l’individuo non possa esistere al di
fuori della società. In quasi tutti i film di Miyazaki le differenze tra buoni
e cattivi sono molto labili e poco marcate, poiché, a suo parere, malvagità e
bontà d’animo non sono altro che facce di una stessa medaglia: i suoi
antagonisti hanno spesso un largo margine di redenzione e quel che più importa
è imparare a convivere nella diversità, senza esercitare troppa enfasi sulle
rispettive differenze. Accettazione,
apertura, la condivisione dell’entusiasmo di vivere: Miyazaki lascia altresì
poco spazio ad un’ inutile speculazione visiva sulle scene di morte, che pure si
vedono raramente nei suoi lungometraggi, così la vita non è mai valorizzata per
opposizione ad essa.
Paradossalmente,
il film che per primo ha registrato un tale successo di pubblico all’estero è stato anche il primo ad avere un’ambientazione inequivocabilmente giapponese, per di
più contemporanea. La scelta del regista di collocare le sue storie in città
spesso liberamente ispirate a quelle italiane o del nord Europa è dettata senz’altro
da una sua passione per il nostro paese, ma nasconde altro: per anni, infatti,
Miyazaki ha rifiutato la propria identità di giapponese, in virtù del senso di
colpa provato per le atrocità commesse dall’esercito durante la seconda guerra
mondiale, principalmente in Cina, Corea e nel Sud-Est Asiatico (crimini ancora
oggi considerati argomento tabù). La redenzione gli è stata offerta da Sasuke Nakao, sostenitore della “cultura delle foreste sempreverdi”,
che postula l’esistenza di una radice comune di alcune culture asiatiche,
basata sul fatto che la stessa qualità di riso viene coltivata fin dall’antichità
in Giappone, alcune zone della Cina, del Nepal e del Bhutan.
Sentendosi
finalmente parte di una realtà più ampia, Miyazaki ha fatto pace con la propria
identità culturale di appartenenza, senza però tradurre questo suo rinnovato
amore in sentimenti di nazionalismo estremo: egli si è risvegliato alla
bellezza della natura del suo paese e questo si traduce graficamente anche
nelle sue opere, dove il verde è tanto celebrato (come dimenticare la foresta
sacra di “Principessa Mononoke”?). L’invito
al rispetto per l’ambiente e la critica alla distruzione operata ai suoi danni
dall’uomo, tanto palese in opere precedenti (vedi “Nausicaa della Valle del Vento”), è in questo film ravvisabile
nello Spirito del Fiume, che si
presenta all’impianto termale tramutato in un ammasso di fanghiglia e rottami.
Di
una riscoperta del proprio sé si parla anche in “La città incantata”: la nostra
eroina, attraverso un processo rischioso e talvolta doloroso, che può implicare
anche la rinuncia a qualcuno o a qualcosa (come per ogni processo di crescita
che si rispetti), approda al disvelamento di un sé più profondo e fino ad
allora nascosto. La perdita della propria identità, che può accompagnarsi ad un
senso di perdita del proprio scopo, è simboleggiata invece dallo smarrimento
del proprio nome: cosi Haku diventa
un burattino nelle mani di Yubaba o
il Senza Volto (=senza nome, senza
identità) è privo di una volontà propria ed assume la voce e le fattezze di
coloro che ingurgita (simbolo del consumismo, del perenne senso di
insoddisfazione che proviamo, di una vuotezza di contenuti?); come già dicevo
all’inizio, l’eroe non è mai solo: così Chihiro-Sen, oltre a riceverlo, dà
anche un prezioso aiuto ad Haku nel ritrovamento del proprio nome-vera
identità.
In
fondo però, un nome non è altro che una parola, un mero indizio (“Quando il
saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”): quel che conta è aver presente
ciò che non può essere espresso verbalmente, tentare di capirlo e comprenderlo
ogni giorno, in un processo di crescita che non avrà mai fine. Noi stessi.
Fonti
consultate:
in “Japanese Visual Culture” - “The Utopian Power to Live”, di Hiroshi Yamanaka
“Hayao
Miyazaki. Il dio dell'anime”, di Bencivenni Alessandro
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