lunedì 25 novembre 2013

Giocando con l'Orlando

La mia seconda stagione alla Pergola si apre sotto cattivi auspici: incatenata a letto da una settimana per colpa della sesta malattia non ero sicura di poter andare a vedere il primo spettacolo ormai già prenotato. Armata di incoscienza e curiosità, combattendo a singolar tenzone contro la stanchezza, arrivo a teatro giusto in tempo per prendere il volantino della serata e lasciare il cappotto al guardaroba. Una volta trovati i posti io e mia sorella  ci sediamo e aspettiamo l’inizio, con la speranza di non cadere vittima di un attacco di tosse – o peggio di sonnolenza – dovuto alla mia influenza.


Giocando con l’Orlando inizia col regista che parla a noi con le luci ancora accese, è la prima nazionale e la tensione nell’aria si avverte, ma subito si crea una simbiosi: il contatto con il pubblico è diretto e intenso, caratteristica necessaria per instaurare un dialogo in rima. Dunque quest’anno si ha una presenza maschile accanto ad Accorsi, anziché l’attrice francese, pure la scenografia è cambiata: parallelepipedi di legno scuro creano palchi e scalini, dividono lo spazio in scene diverse, quasi dovessimo tornare nelle piazze italiane per assistere ad una sacra rappresentazione.

Colpisce ovviamente il recitare, che lento si trasforma da chiacchierata intima tra gli spettatori ed il regista in conversare rimato e ritmato dai tempi dell’Ariosto, si perché i nostri attori Accorsi e Baliani riprendono la storia dell’Orlando Furioso e ce la narrano in versi, con tutta l’atmosfera catartica che ciò comporta. Improvvisamente si illumina il palco per intero e vediamo dei cavalli sul fondo piantati in terra con robusti pali alti almeno due metri e mezzo, a chiudere la scena, sono colorati, imbizzarriti, in movimento: e così abbiamo la nostra giostra.

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Mentre le gesta di Orlando e Angelica proseguono in un climax di peripezie si colgono vari aspetti che differiscono rispetto all’edizione precedente: uno spettacolo sicuramente più divertente, ma anche più colmo di citazioni, allusioni, ricordi, memorie, che siano essi di una cultura comune o appartengano solamente a congetture personali. Si avverte il taglio più maschile che il regista ha dato all’opera, si parla infatti  di amore come pulsione primordiale che tutto muove e tutto spinge, inarrestabile, che non si ferma davanti a vecchie promesse e anzi irrompe platealmente nei cuori dei protagonisti, lasciandoli in balìa di una forza incontrollabile, non sempre gentile, ma brutale e folle quando si trasforma in gelosia. Tutto questo si avverte certo, ma si avverte anche la sfumatura al femminile: negli accenni ai pregiudizi sulle donne dopo un tradimento e di come il mondo faccia da sempre due pesi e due misure, nella ferocia con cui Orlando avrebbe volentieri ucciso la sua amata se l’avesse riconosciuta e nell’innocenza di essa mentre fugge via dagli svariati aguzzini. Si mette così in luce un mondo che poi tanto inventato non è, come ci ricorda la giornata del 25 novembre, con la violenza sulle donne in aumento e la paura che i media ci trasmettono rifilandoci continuamente necrologi spacciandoli per informazione.

Non mi dilungo sulla bravura degli attori in scena che per un’ora e mezzo ci hanno trasportato dentro il mondo cortese, faccio notare invece l’intelligenza dei rimandi, o per lo meno quelli che la mia memoria ha colto. Bellissimi, come accennavo prima, i cavalli in coda della scena pieni di colore: colore per risollevare gli animi in tempo di crisi, colore perché è il must di queste stagioni, colori perché si tratta di una giostra e perché, non dimentichiamocelo, qui si sta giocando col poema dell’Ariosto, colori che sono gli unici nello spettacolo, infatti gli attori sono vestiti semplicemente con maglie scure e jeans (mi chiedevo perché Baliani avesse una maglia col cappuccio, non è molto estetico, quando ha interpretato lo stregone ho capito). Mancano invece i suoni, se escludiamo infatti il rumore del mare simulato dal regista, e qualche altra onomatopea prodotta con la voce non si ha altro modo per calarci nei panni di Ruggero, Bradamante e gli altri eroici protagonisti se non attraverso gli attori.

Torniamo per una terza volta ai cavalli, avete presente Frankenstein Junior di Mel Brooks? Come nella celeberrima parodia del romanzo della Shelley, qui alla parola cavalli si ha un turbinio di luci e un nitrito spazientito. Ecco un altro elemento importante – no, non il verso del cavallo – l’uso dell’illuminazione: inizio a luci accese, quasi fosse un incontro informale, una chiacchierata, poi abbiamo lampi sui cavalli, ancora luci viola se si tratta di momenti magici, verdi, blu, rosse per indicare la rabbia e la gelosia, la furia assoluta, e poi il buio.



Tra un verso e l’altro Accorsi riesce a dare contemporaneità alla narrazione con allusioni al presente, è il caso del nano Brunello, di cuor perfido e basso di statura, che porta con sé il tesoro dell’anello – fate voi lo sforzo di trovare il nostro politicante che gli è compare; non solo risate però, triste è l’affinità che le battaglie antiche hanno con i tempi nostri: sono i cadaveri sepolti, riaffiorati o spersi sulle rive mediterranee.

Battaglie si, ma soprattutto amori e dolci pensieri: una donna che tutti desiderano e che persino un eremita cerca di traviare, questo vecchio addormenta Angelica e cerca di possederla ma, sfortunatamente, è troppo anziano per una cotal impresa e si abbandona alla resa. Mi ha fatto pensare a Sleeping Beauty, film diretto da Julia Leigh del 2011 con una meravigliosa Emily Browning: stessa scena, peccato che qui la ragazza sia una prostituta e a volte questi “vecchi” non si limitino soltanto a dormirle accanto.

Infondo è giusto che la bella Angelica si innamori di colui di cui mai si sarebbe aspettata, una gioia genuina, un amore sincero, così vero che strappa il senno al vecchio amato, e solo dopo che Astolfo glielo ha riportato potrà tornare alla guerra e vincere contro il nemico tanto odiato.

Magistrale l’uso dello spazio scenico e la sincronia tra gli attori, con varie tecniche di botta e risposta, eco, interruzioni e scambi di ruolo. Per niente noioso se non per chi non sopporta il teatro. Nonostante sia ammalata non ho tossito – e tantomeno mi son addormentata. Mentre ascoltavo, rapita, il dialogare, mi è venuto in mente un altro parafrasare, il Recitativo di De Andrè che molto ha da dire per la trattazione dei temi riguardo alla nostra società ed ai suoi problemi, ma pur ben si adatta a descrivere le gesta qui rievocate, e allora vi lascio così, con queste parole cantate:



La polvere il sangue le mosche e l'odore
per strada fra i campi la gente che muore
e tu, tu la chiami guerra e non sai che cos'è
e tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi il perché.

L'autunno negli occhi l'estate nel cuore
la voglia di dare l'istinto di avere
e tu, tu lo chiami amore e non sai che cos'è
e tu, tu lo chiami amore e non ti spieghi il perché.