venerdì 6 dicembre 2013

Ladri di anime

È il 21 novembre, giorno in cui, qui a Venezia, si celebra la festa della Madonna della Salute; l’autunno regala spesso giornate di cielo terso e sereno come quest’oggi: passeggio lungo le fondamenta delle Zattere in compagnia di un amico e il sole si riflette sul canale della Giudecca, di fronte a noi la chiesa delle Zitelle e il Redentore sono incorniciati da un manto di nuvole che va sfumando sul grigio.
Mancano pochi giorni alla conclusione della Biennale d’Arte, svoltasi come di consueto tra i Giardini e l’Arsenale, ma non solo: sin da giugno, infatti, il centro storico si è visto costellato di un’incredibile varietà di eventi “collaterali”. Possibile con un po’ di pazienza visitarli tutti quanti, ma non per me che, come al solito, mi riduco all’ultimo momento!


Lungo le fondamenta sulle quali stiamo passeggiando, macchina fotografica al collo, notiamo la mostra di tale Bart Dorsa dal titolo “Katya”, il cui manifesto mi è ormai familiare, tante sono le volte in cui l’ho visto affisso sui muri della città. All’ingresso ci fanno togliere le scarpe: le pareti e il pavimento sono ricoperti di una vellutata moquette nera sulla quale è piacevole poggiare i piedi scalzi; non so bene cosa aspettarmi e avanzo titubante nel buio, guidata da un flebile fascio di luce creato dal riflesso di questa su uno specchietto posto in basso, nell’angolo del corridoio che stiamo percorrendo e che ci conduce nel cuore della “caverna”: al suo interno il volto di Katya ci fissa da più angolazioni, il suo sguardo un po’inquieta e un po’attira. 


I suoi occhi vitrei mi ricordano quelli di un gatto dalle pupille che ora si dilatano spaventate, ora si restringono e scrutano con attenzione. Le fotografie che ritraggono il volto e il corpo della ragazza, realizzate con camera oscura su lastre al collodio umido, hanno un sapore antico e quasi magico, rituale. La ripetizione ossessiva con cui sono disposte lungo le pareti e la posizione, ben studiata, che occupano nello spazio creano un ritmo che avvolge e coinvolge; il buio rende inoltre possibile allo spettatore concentrarsi su esse senza distrazione alcuna ed esserne rapito. Non c’è ombra di voyeurismo, neppure dinanzi agli scatti che ne ritraggono il corpo nudo e segnato, e che sfumano nei morbidi toni del grigio e del nero. Io personalmente mi ci avvicino con curiosità e talvolta in contemplazione, animata da un po’ di tristezza mista a compassione e partecipazione.


Due parole sull’artista e sulla sua musa: Bart Dorsa, americano di nascita, vive a Mosca da oltre dieci anni. È il 9 luglio 2009 - poco dopo la notizia del suicidio di un caro amico - il giorno in cui Katya si presenta alla sua porta, e insieme ad essa la possibilità per l’artista di esprimere il proprio dolore per la recente perdita. Dopo aver studiato in Europa la tecnica della fotografia antica, la mette infine in pratica liberandosi definitivamente della macchina e servendosi solo di lenti e camera oscura. È forse voluto l’intento di rendere lo spazio espositivo simile alla camera oscura stessa, mezzo che permette all’artista di instaurare un rapporto intimo e personale con il soggetto, in quanto tutto ciò che è “altro” da questo viene escluso e relegato all’esterno: la stessa sensazione che, come già sottolineato, ho provato io in qualità di visitatrice. L’immagine viene impressa direttamente sulla superficie della lastra di vetro emulsionata al collodio umido (una soluzione in grado di registrare con precisione fino ai minimi dettagli).


Il processo è lungi dall’essere istantaneo e la seduta fotografica si trasforma così in una sorta di rituale, in una penetrazione del soggetto all’interno del materiale fotosensibile. Tutto concorre alla realizzazione di un profondo ritratto psicologico, oltre che di una semplice immagine: non a caso, gli Indiani d’America ritenevano il fotografo un “ladro d’anime” e Dorsa ammette di aver subito il fascino di questa credenza.

Katya è russa, figlia di un tecnico elettricista e di una pasticcera. In seguito al divorzio dei genitori e alla decisione della madre di farsi suora, vive con quest’ultima presso un monastero ortodosso, da quando ha soli tre anni fino ai tredici. Contagiata dalla libertà della metropoli moscovita, la ragazza passa in seguito dalla severità della vita monastica alla cultura dei freak, fino a trovare una nuova modalità di espressione di sé attraverso le varie forme di modificazione corporea. Le fotografie traducono, nella loro ritmica sequenzialità, il senso del viaggio di Katya da una realtà all’altra e ne documentano le coraggiose trasformazioni. Nell’immagine che la ritrae di spalle con le braccia aperte, ho voluto intravedere una disposizione ad accettare la vita nel suo insieme con pacifica rassegnazione, ma non solo questo: anche un certo coraggio nel rivelarsi per ciò che siamo o abbiamo scelto di diventare, con tutte le fragilità che caratterizzano l' essere umano.




Lascio che un ultimo sentito sguardo si posi con delicatezza sulle sue mani, all’apparenza piccole e fragili. Sento che lei mi restituisce il suo, attraverso le decine di occhi davanti ai quali passo prima di lasciare la sala. Rimettiamo le scarpe ed usciamo alla luce: il sole acceca e sembra più incandescente di come lo ricordavo.

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