giovedì 12 dicembre 2013

"Sospiro d'anima"

Tra i vantaggi che Venezia offre come città universitaria, c’è quello della “Giovani a Teatro card”; gratuita per i giovani che studiano o risiedono nella provincia, rinnovabile annualmente, la proposta culturale che essa offre è molto ampia: non solo sconti su mostre temporanee di arte, fotografia o sugli ingressi ai musei, ma, come suggerito dal nome stesso, la possibilità di andare a teatro pagando soli 2.50 €. Posti prenotabili, benché limitati, per ogni spettacolo “contemplato” dal ricco cartellone: si va dal Teatro Goldoni al Teatro Ca’Foscari a Santa Marta. È proprio qui che, martedì 10 dicembre, ho assistito alla rappresentazione di cui vorrei brevemente parlarvi oggi.

“Sospiro d’anima. La storia di Rosa”: questo il suo titolo.
Rosa Cantoni nasce a Pasian di Prato, in provincia di Udine, nel 1913; durante gli anni della Resistenza sceglie di farsi partigiana, ma, tradita da un compagno, viene arrestata dai fascisti nel 1944 e deportata nel campo di concentramento di Ravensbrück, Germania. Riuscirà a fuggire insieme ad altre donne nell’aprile 1945, durante una marcia della morte, e a far ritorno a Udine.

In quegli anni, la sua è una vita segnata da avvenimenti comuni a quelli di tante altre esistenze. Niente di speciale, dunque. Eppure, fra le tante, questa storia mi ha coinvolta: merito di Aida Talliente, che ha incontrato Rosa, scomparsa nel gennaio 2009, e ne ha raccolto la testimonianza per realizzare infine questo spettacolo in suo onore, di cui è sia interprete che regista. 



Una donna, la schiena curva, fa la sua entrata in scena: canta in friulano, in un sussurro di voce appena percettibile. La sceneggiatura è minima, essenziale, ma ha una profonda potenza evocativa; sul palco pochi oggetti: al centro di quel che io definirei un cerchio “sacro”, fatto di pietre e lumini accesi, stanno un albero spoglio e, ai suoi piedi, qualche scatola accomodata a formare un appoggio, sul quale la vecchia Rosa si siede e inizia a raccontare. È accompagnata da un giovane, silenzioso e sorridente, che siede fuori da questo spazio e tiene in braccio una fisarmonica.
Da subito, abbandonandosi con fiducia all narrazione, condivide con noi i suoi ricordi e da una delle scatole estrae alcune vecchie fotografie: sono immagini in bianco e nero che la ritraggono giovane, in compagnia della famiglia e dei tre fratelli. Ci parla di loro con amore e nostalgia; si sporge dal palco, superando appena il confine del cerchio, e le consegna al pubblico seduto in prima fila affinché possiamo ammirarle e toccarle con mano anche noi spettatori: sono passati solo pochi minuti dall’inizio dello spettacolo e già mi sembra di non trovarmi più a teatro, bensì nel salotto di casa, di fronte a mia nonna che un po’ cuce e un po’ sfoglia vecchi e polverosi album di famiglia.



Il salto temporale è fulmineo: da vecchia e piena di ricordi, Rosa torna improvvisamente giovane, scattante e piena di vita, durante gli anni dell’avvento del fascismo. Magistrale Aida, in questo continuo scivolare tra passato e presente, forza e dolcezza, energia e lentezza: non è che un monologo, eppure sulla scena sembra di veder agire decine di personaggi; il suo è un muoversi sul palco in grado di stimolare l’immaginazione del pubblico, la sua gestualità sembra creare e comunicare più di quanto una dettagliata sceneggiatura riuscirebbe a fare. Complice senz’altro il vivace accompagnamento musicale che scandisce lo svolgersi degli eventi: davanti ai nostri occhi scorrono parate fasciste, il lavoro delle donne in fabbrica, l’entusiasmo di una giovane che dapprima si dedica alla poesia (“Il mondo intero ha bisogno di grande poesia e io ne devo scrivere talmente tante che devo arrivare a legarle e cucirle insieme per non perderle. Parole e pensieri possono cambiare il mondo!”) e poi sceglie, alla caduta del Duce, di sposare la causa della Resistenza.
Nell’aria si diffonde un intenso e familiare aroma: da una delle scatole Rosa estrae una grande moka, versa il caffè in alcune tazzine e offre anch'esse al pubblico delle prime file. Ci recita in friulano una delle sue poesie, “Pinsirs”, ma noi abbiamo sottomano il testo in italiano.

Pensieri
Il cielo è bello, sereno
Una brezza viene
Dondola foglie e fiori
Che mandano profumi buoni…
   Sussurri e voli d’uccelli.
Silenzio attorno…
Lontano qualche rumore.
Qualcosa si sveglia nel cuore
E ti riporta indietro
   Da piccola in poi.
Rivedi il tempo passato
E tutto ciò che è stato:
gli occhi azzurri della madre,
la presenza del padre,
   i tuoi tre fratelli.
Il tempo è veloce, corre
Ha portato via anche loro
Che dentro ti hanno lasciato
Il ricordo mai cancellato
   Della via fatta insieme.
Vengono anche i pensieri
Di tanti, morti e vivi
Compagni di quelle azioni
Di lotte e passioni
   Per far sì che il Mondo sia
   Migliore.
Dolori dunque e allegrie,
speranze, malinconie,
battaglie vinte e no,
così è la tua vita
   che il tempo porta via.

(Rosa Cantoni, 1993)

L’atmosfera rilassata ma festosa che si è venuta a creare, viene interrotta bruscamente dalla drammatica descrizione dell’arresto e della deportazione: il ritmo incalzante con cui Rosa sceglie di raccontarcelo evoca lo scorrere inarrestabile ed insensato di quel treno che, dopo un viaggio di durata incalcolabile, la conduce fino in Germania. Inevitabile la commozione generata dal suo tentativo di comunicarci la terribile spersonalizzazione operata dalla vita (che non è più vita) del campo: 
“si perdono i pensieri, non si pensa più…e io non riesco più a legarli e a cucirli insieme, i miei pensieri, perché io non son più io, non son più giovane, né vecchia…e fa freddo, è inverno qui. Allora bisognerebbe fare una cosa che qui non si può fare…allora io penso, se posso pensare, mi metto qui di nascosto, nella baracca, e penso che, se non penso, muoio: allora, io penso.”




Tuttavia, una nuova primavera la attende: con una danza fatta di salti di pura gioia, lo spettacolo si conclude; i lumini che compongono il perimetro dello “spazio sacro” illuminano ognuno una scatola, un ricordo. È il momento in cui Rosa può finalmente andare, “dove non si sa!”, ma le luci restano accese, così come lo erano all’inizio: “l’ho portata per voi, ecco, la mia vita! Da dire ancora un’ultima volta, prima di andare…[…]prima che qui torni il silenzio…ecco, lo sentite, voi, il silenzio?”.

Uno spettacolo che, nella sua forza, nella sua semplicità, rimanda all'importanza del passato: chiudere gli occhi dinanzi ad esso significherebbe fare lo stesso anche nei confronti del presente.

Informazioni varie ed eventuali:
La Giovani a Teatro Cardhttp://www.giovaniateatro.it/
Il blog di Aida Tallientehttp://aidatalliente.blogspot.it/

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