Tanto
per cominciare bene il nuovo anno, oggi vorrei presentarvi un tema che fonde
due dei miei amori più grandi: la 横浜写真 , leggasi “Yokohama
Shashin” (fotografia di Yokohama, dal suo principale centro di diffusione),
che ho avuto modo di conoscere ed apprezzare grazie ad una mostra vista qualche
anno fa presso l’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti.
È
il periodo compreso tra il 1843 e il 1859 che vede l’esordio della fotografia
in Giappone: le prime macchine fotografiche arrivano a Deshima, un’isola artificiale costruita per volere dello shogun Tokugawa Ieyasu al fine di
ospitare gli insediamenti commerciali dei portoghesi prima, e degli olandesi
poi, durante il sakoku (una sorta di
isolamento autoimposto del paese). Le tecniche di ripresa e stampa vengono invece
divulgate a partire dal 1853 da alcuni medici olandesi, che si occuperanno
anche della formazione dei primi fotografi locali, come Ueno Hikoma, considerato in patria come il padre della fotografia
giapponese.
Ueno Hikoma, Veduta di Tōkyō dal Colle di Atago, 1870 ca. |
La
più antica immagine esistente è un dagherrotipo del 17 settembre 1857 che
ritrae il daimyō Shimazu Nariakira: è
probabile che si tratti di una delle prime opere realizzate in Giappone, fatta
eccezione per i dagherrotipi di Eliphalet
M. Brown jr., fotografo della marina americana imbarcato al seguito della spedizione del commodoro Perry; le immagini originali, andate quasi tutte perdute, furono utilizzate per realizzare delle incisioni a corredo del resoconto della spedizione pubblicato nel 1856.
Tra il 1859 e il 1863 vengono
aperti al commercio estero anche i porti di Yokohama,
Hakodate e Nagasaki, dove grazie ai contatti con i numerosi viaggiatori
europei appassionati di fotografia, i giapponesi apprendono le tecniche
fotografiche e acquistano le prime attrezzature. Le immagini di questo periodo consistono
principalmente in ritratti in posa di persone abbienti, architetture e
paesaggi.
ritratto di Shimazu Nariakira, realizzato il 17 settembre 1857da Ichiki Shirō |
Dal
1863 la situazione inizia a cambiare e nel volgere di trent’anni il paese
diventa la maggior potenza industriale in Asia. A questo fa seguito un diffuso senso
di nostalgia per i tempi passati, sia negli occidentali che nei giapponesi, e che
finisce per influenzare la visione fotografica stessa; grazie anche al successo
delle opere e dei trattati che in occidente alimentano il mito del giapponismo, questo tentativo di ricreare
e divulgare attraverso le immagini l’ideale di un Giappone antico ed ancorato
alle tradizioni trova larga adesione: complice la “selettività” del mezzo
fotografico, è possibile focalizzarsi su una sola parte della realtà escludendone
altra, oppure ricrearla appositamente in studio quando anche questa realtà “parziale”
non è più individuabile in natura.
Dal
1864 il fotografo Felice Beato dà inizio alla vendita dei cosiddetti "album souvenir", rilegati e arricchiti da un assortimento di immagini tipiche
del Giappone: veri e propri gioielli di artigianato, hanno copertine in legno laccato
con intarsi in argento, oro, avorio, corno e madreperla. Il turismo “per
diletto”, che seguiva gli itinerari di viaggio allora permessi, crebbe in seguito notevolmente.
Souvenir Album di Kusakabe Kimbei |
Le fotografie ritraggono spesso i cosiddetti luoghi celebri, ovvero luoghi divenuti ormai noti per l’immaginario collettivo e rappresentati anche nelle stampe ukiyo-e.
Kajima Seibei, Il Monte Fuji visto dal lago Hakone, 1890 ca. |
Come la scelta dei soggetti e la composizione stessa dell' immagine siano influenzate dalla tradizione artistica giapponese lo si può ben vedere anche nelle fotografie ritraenti scene di vita quotidiana, di cui sono protagonisti donne, samurai, portatori di risciò e palanchini, venditori ambulanti, contadini al lavoro nelle risaie, lottatori di sumō e via dicendo.
Felice Beato |
Raimund von Stillfried-Ratenicz, Lottatori, 1870 ca. |
Queste stampe all'albumina erano colorate a mano da coloristi abilissimi che in passato si erano già dedicati alla pittura su carta e tessuto e alla realizzazione di xilografie policrome, tanto che questa tecnica può essere considerata una particolare prosecuzione estetica dell'ukiyo-e. Un artista che applicava un singolo colore, servendosi di pennelli sottilissimi, poteva impiegare fino a 6 ore per immagine.
Senz'altro la mancanza del colore nelle fotografie ottocentesche era avvertita come un limite e la policromia di queste stampe, insieme alla loro raffinatezza ed esoticità, deve aver contribuito al senso di stupore e meraviglia con cui esse furono accolte.
Ogawa Kazumasa, Crisantemi, 1890 ca. |
Fiori e piante delle quattro stagioni, Hiroshige |
Fonti: "Ineffabile perfezione. La fotografia del Giappone 1860-1910", Giunti Editore
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