È
il 21 novembre, giorno in cui, qui a Venezia, si celebra la festa della Madonna della Salute; l’autunno regala spesso giornate di cielo terso e sereno come quest’oggi:
passeggio lungo le fondamenta delle Zattere in compagnia di un amico e il sole
si riflette sul canale della Giudecca, di fronte a noi la chiesa
delle Zitelle e il Redentore sono incorniciati da un manto di nuvole che va
sfumando sul grigio.
Mancano
pochi giorni alla conclusione della Biennale d’Arte, svoltasi come di consueto
tra i Giardini e l’Arsenale, ma non solo: sin da giugno, infatti, il centro
storico si è visto costellato di un’incredibile varietà di eventi “collaterali”.
Possibile con un po’ di pazienza visitarli tutti quanti, ma non per me che,
come al solito, mi riduco all’ultimo momento!
Lungo
le fondamenta sulle quali stiamo passeggiando, macchina fotografica al collo, notiamo
la mostra di tale Bart Dorsa dal titolo “Katya”, il cui manifesto mi è ormai
familiare, tante sono le volte in cui l’ho visto affisso sui muri della città. All’ingresso
ci fanno togliere le scarpe: le pareti e il pavimento sono ricoperti di una
vellutata moquette nera sulla quale è piacevole poggiare i piedi scalzi; non so
bene cosa aspettarmi e avanzo titubante nel buio, guidata da un flebile fascio
di luce creato dal riflesso di questa su uno specchietto posto in basso, nell’angolo
del corridoio che stiamo percorrendo e che ci conduce nel cuore della “caverna”:
al suo interno il volto di Katya ci fissa da più angolazioni, il suo sguardo un
po’inquieta e un po’attira.
I suoi occhi vitrei mi ricordano quelli di un gatto
dalle pupille che ora si dilatano spaventate, ora si restringono e scrutano con
attenzione. Le fotografie che ritraggono il volto e il corpo della ragazza, realizzate
con camera oscura su lastre al collodio umido, hanno un sapore antico e quasi magico,
rituale. La ripetizione ossessiva con cui sono disposte lungo le pareti e la
posizione, ben studiata, che occupano nello spazio creano un ritmo che avvolge e
coinvolge; il buio rende inoltre possibile allo spettatore concentrarsi su esse
senza distrazione alcuna ed esserne rapito. Non c’è ombra di voyeurismo,
neppure dinanzi agli scatti che ne ritraggono il corpo nudo e segnato, e che
sfumano nei morbidi toni del grigio e del nero. Io personalmente mi ci avvicino con
curiosità e talvolta in contemplazione, animata da un po’ di tristezza mista a
compassione e partecipazione.
Due
parole sull’artista e sulla sua musa: Bart Dorsa, americano di nascita, vive a
Mosca da oltre dieci anni. È il 9 luglio 2009 - poco dopo la notizia del
suicidio di un caro amico - il giorno in cui Katya si presenta alla sua porta, e
insieme ad essa la possibilità per l’artista di esprimere il proprio dolore per
la recente perdita. Dopo aver studiato in Europa la tecnica della fotografia
antica, la mette infine in pratica liberandosi definitivamente della macchina e
servendosi solo di lenti e camera oscura. È forse voluto l’intento di rendere
lo spazio espositivo simile alla camera oscura stessa, mezzo che permette all’artista
di instaurare un rapporto intimo e personale con il soggetto, in quanto tutto
ciò che è “altro” da questo viene escluso e relegato all’esterno: la stessa
sensazione che, come già sottolineato, ho provato io in qualità di visitatrice.
L’immagine viene impressa direttamente sulla superficie della lastra di vetro emulsionata
al collodio umido (una soluzione in grado di registrare con precisione fino ai
minimi dettagli).
Il processo è lungi dall’essere istantaneo e la seduta
fotografica si trasforma così in una sorta di rituale, in una penetrazione del
soggetto all’interno del materiale fotosensibile. Tutto concorre alla
realizzazione di un profondo ritratto psicologico, oltre che di una semplice immagine:
non a caso, gli Indiani d’America ritenevano il fotografo un “ladro d’anime” e
Dorsa ammette di aver subito il fascino di questa credenza.
Katya
è russa, figlia di un tecnico elettricista e di una pasticcera. In seguito al
divorzio dei genitori e alla decisione della madre di farsi suora, vive con
quest’ultima presso un monastero ortodosso, da quando ha soli tre anni fino ai
tredici. Contagiata dalla libertà della metropoli moscovita, la ragazza passa
in seguito dalla severità della vita monastica alla cultura dei freak, fino a trovare una nuova modalità
di espressione di sé attraverso le varie forme di modificazione corporea. Le
fotografie traducono, nella loro ritmica sequenzialità, il senso del viaggio di
Katya da una realtà all’altra e ne documentano le coraggiose trasformazioni.
Nell’immagine che la ritrae di spalle con le braccia aperte, ho voluto intravedere
una disposizione ad accettare la vita nel suo insieme con pacifica
rassegnazione, ma non solo questo: anche un certo coraggio nel rivelarsi per ciò che siamo o abbiamo scelto di diventare, con tutte le fragilità che caratterizzano l' essere umano.
Lascio
che un ultimo sentito sguardo si posi con delicatezza sulle sue mani, all’apparenza
piccole e fragili. Sento che lei mi restituisce il suo, attraverso le decine di
occhi davanti ai quali passo prima di lasciare la sala. Rimettiamo le scarpe ed
usciamo alla luce: il sole acceca e sembra più incandescente di come lo
ricordavo.
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