lunedì 17 febbraio 2014

Don Giovanni/Filippo Timi

Eccomi a riferire a voi le impressioni che ho avuto sul “caso” Timi: prima l’incontro con autografo e foto annessi, poi il Don Giovanni - vivere è un abuso mai un diritto; prendiamo come assioma il mio amore per Filippo, bravo, bello, controverso, debole ma forte, con un passato travagliato, balbuziente e culturalmente gigantesco. Mi hanno sempre affascinato le storie non lineari, gli outsider come lui, basti pensare alla mia passione smodata per De Andrè o ai miei sedici anni in compagnia dei poeti maledetti, primi fra tutti Baudelaire e  Rimbaud, o al fascino oscuro di Carmelo Bene, intrigante.



È naturale quindi che la figura dell’umbro mi attiri, tanto più che sono fissata con la sua voce: ruvida, graffiante, sublime, penetrante, conturbante e possente, che ammalia con una sola sillaba. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e osservarlo da vicino (quasi fosse una specie rara) mercoledì scorso, durante un incontro organizzato dalla Repubblica nella sede di Via La Marmora. A noi venuti ha parlato del Don Giovanni, ma lasciando stare le chiacchiere che son state fatte quello che più mi ha impressionata è stata la sua energia: lui, come è sul palco, così risulta essere in ogni momento, vivo, possente, presente.



Guardandolo mi sembra di rivedere Michelangelo, o meglio non lui, piuttosto le sue pitture, l’uomo che si protende verso Dio, i colori brillanti sono sostituiti però dai toni cupi e gli eccessi luministici di Caravaggio e Tiziano. Un’opera d’arte fuori dal tempo con accenni brutali, quell’estetica non fine a sé stessa e per questo più sublime. Un concentrato di cultura, ingegno, sofferenza e umanità che trasuda da ogni parola, ecco cosa è Filippo Timi.




Il mio interesse per l’attore inizia quando, qualche anno fa, lo vidi al fianco di Crozza mentre interpretava il Trota, poi ancora con lui nei panni di un travestito, e in seguito con la Pandolfi  nel film Quando la Notte, di Cristina Comencini. L’anno scorso ho avuto il privilegio di poter assistere, al Teatro della Pergola, all’Amleto², lo spettacolo di prosa più bello in assoluto che io abbia mai visto: ho fatto il pieno di risate e pianti, entrambi veri, sentiti e partecipati, emozioni così forti che non pensavo avrei mai provato a teatro, oltre che con la lirica.


Le aspettative dunque erano molte, aggiungiamo il fatto che per il Don Giovanni sono stati curati molto i costumi ed ecco che subito la mia mente viaggiava e non vedeva l’ora di assistere allo spettacolo. Si sa, dopo tanta attesa è facile rimaner delusi, non è questo però quello che mi è capitato. Ho avuto sentimenti di odio e amore, ho ripudiato e agognato questo spettacolo.



Recitar! Mentre preso dal delirio,
non so più quel che dico,
e quel che faccio!
Eppur è d'uopo, sforzati!
Bah! sei tu forse un uom?
Tu se' Pagliaccio!

Vesti la giubba,
e la faccia infarina.
La gente paga, e rider vuole qua.
E se Arlecchin t'invola Colombina,
ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto
in una smorfia il singhiozzo e 'l dolor

Ah, ridi, Pagliaccio,
sul tuo amore infranto!
Ridi del duol, che t'avvelena il cor!

L’incipit, o meglio l’overture, è superba, il brano è tratto dall’opera di Leoncavallo, I Pagliacci, qui nella fantastica interpretazione di Pavarotti, non ci sono parole per descriverla, mi vengono i brividi solo a parlarne. Dunque un inizio in pompa magna, la scena si apre e sullo sfondo è proiettato un video di un’anziana signora con trucco acceso e parrucca azzurra mentre si prodiga in giravolte, è la madre di Timi che danza per lui, la prima vera donna che Don Giovanni abbia mai amato.  Sul pavimento, illuminato di bianco stile disco ’70, lui dorme sopra un materasso cruciforme (quasi fosse una morbida punizione la sua vita), le pareti-quinte coperte da pacchiana imbottitura dorata, primo dato trash l’areoplanino telecomandato e il suo fastidioso ronzio. Leporello (il servo di Giovanni) tira una tenda, lo sfondo adesso è un soffitto a cielo aperto con putti, nubi, e un groviglio di altre figure, degno di un Veronese d’altri tempi.

I costumi sono rivisitati in chiave pop contemporanea (come tutta l’opera del resto) ma il profumo settecentesco permea ogni fibra, i tacchi rossi di Luigi XIV ora sono neri, a clessidra e reggono scarpe pastello con fiocchi esageratamente grandi. Leporello e Ludovico, il servo di Donna Elvira, indossano costumi identici ma di colori diversi, con culotte fatte da strati di tulle arricciato che li fanno somigliare a due struzzi (e infatti lo diventeranno). Sono frivoli, opportunisti, omosessuali, ma hanno un orgoglio, un loro codice, princìpi e verità che non collimano con il resto del mondo ma inalterabili e ferrei.



Le donne sono il motore degli eventi e la prima delle tre ad entrare in scena è Elvira, monaca strappata al convento dal rubacuori, un’ enorme crinolina sorregge l’abito di velluto rosso con balza increspata alla fine, fiocchi neri e seni appuntiti, ha una doppia volpe sulle spalle a righe rosse e nere e tiene in mano un coltello; è il simbolo dell’amore passionale, acceso, cieco, pieno di disperazione e di desiderio, irrazionale al punto che farebbe follie, tutto questo si esprime con una serie di cazzo, cazzo, cazzo infiniti ogni volta che calca il palco.



La seconda è Anna, sta per sposarsi, suo padre è ricco e tutto è già stato stabilito, lei stessa parla a noi e si presenta, la scena è oscurata, mentre sullo sfondo un video di ginnaste orientali ci delizia con performance di estrema precisione, simbolo di liberà corporea e oppressione mentale, in contrapposizione alla condizione di degenza su sedia a rotelle della donna, costretta più da un peso morale che da un problema fisico. È lei che parla dell’aborto spontaneo, degli abusi subiti dal padre, un uomo che poco dopo Don Giovanni uccide, la ragazza quindi piange e si dispera, voleva essere lei a farlo fuori e ne ha nostalgia, ecco che si alza e, nonostante il peso del ricordo la leghi a terra con due zattere nere ai piedi alte 30 cm, riesce a muoversi. Così Anna, da timida e impaurita, diventa dominatrice, simbolo di un amore che nasce dal male e che potrà continuare solo in modo malato, con sadomaso, frusta sostituita da un nastro per gli esercizi ginnici nero, pratiche sadiche e perfidia ai massimi livelli. Ludovico, completamente nudo, come fosse un moderno Discobolo, perfetto in ogni sua parte, trascina via il cadavere dell’uomo, è forse un angelo?

La terza e ultima donna a fare la sua comparsa è Zerlina, popolana romana, che troviamo a girare su un carillon con indosso una andrienne in colori pastello molto tenui e genuini su sfondo bianco. Oltre a richiamare alla mente le porcellane del ‘700, si cita anche la commedia dell’arte sia nelle movenze che nella caratterizzazione psicologica di lei. Zerlina rappresenta l’amore sincero, puro, semplice, ingenuo perché ignorante, incontaminato dalle nefandezze del mondo e quindi più felice. Don Giovanni saprà conquistare pure lei grazie ad un monologo (anzi il monologo) nel quale spiega come quando una donna si sposa essa sia legittimata a tradire per dimostrare quanto ami veramente il marito, ovvero quale prova d’amore sia tornare sempre a casa e lasciare il piacere dell’amante.

Meravigliose le pellicce che indossa Filippo: adornate da una cascata di fiori, oppure da parrucche di donne di ogni colore e forma, e ancora indumenti femminili tutti cuciti insieme, simboli di passate sue prede, o anche l’accecante rossa e argentata indossata prima della morte. Un’ analogia la trovo con l’artista americano Nick Cave che di pellicce ne sa qualcosa,come anche con Hirst ad esempio per la conchiglia diamantata, ma più in generale per l’attitudine contemporanea e provocatoria dello spettacolo.


Nick Cave - Soundsuits

Gli intermezzi video, utili a separare una scena dall’altra, sono tremendamente trash e attingono dal pozzo infinito di stranezze che è youtube

Le luci elettriche accecanti si alternano all’assenza di colore, al buio, ed al bianco più asettico e potente, ricreando, con i toni accesi dell’epoca elettronica, un Manierismo commerciale. La drammaticità degli eventi non è resa tanto dai dialoghi quanto dall’iterazione no-sense degli stessi, spesso infatti si assiste ad interminabili battibecchi che spersonalizzano e trascinano fuori i personaggi, li rendono futili oggetti di un sistema inceppato. L’attualizzazione dell’opera procede su livelli trasversali e le fonti d’ispirazione non sono sempre auliche, ne è un esempio la canzone rivisitata che Timi canta a Leporello per convincerlo a restare, sulle note della Sirenetta.



Sul finale si apre una scena totalmente bianca, dalla bara del padre di Anna esce Lucifero in persona (era lui allora il Discobolo denudato) ovvero Ludovico, in tenuta da generale nazista rosa e azzurra, e sulle note di Lascia ch’io pianga, ci spiega come ucciderà Don Giovanni.


Così cantava anni fa De Andrè, e così finirà l’ammaliatore di cuori, Elvira, Anna e Zerlina, in abiti rossi accesi, lo divoreranno con fauci molto intime. Dopo una pioggia di lustrini rossi argentati muore Don Giovanni; nella scena finale vediamo a sinistra Leporello con code di cavallo al posto delle mani, al centro Satana-Ludovico e a destra un Cristo drogato da due indovene, una per braccio, accasciato su una sedia a rotelle: un quadretto degno di Koons per le provocazioni spensierate e la vena pop, come di Matthew Barney ed i suoi Creamaster per il lavoro svolto sul corpo ed il trasformismo, e pure di Carmelo Bene per le ingenti e a volte gratuite provocazioni.


Creamaster 3

Nel complesso fantastico lo stile recitativo di ognuno, perfetta la caratterizzazione dei personaggi, largamente approfonditi, una goduria vederli sul palco, Timi è stato bravo a non intralciare nessuno e a non spadroneggiare, lasciando invece che il dramma si presentasse grazie ai singoli apporti, eterogenei, complessi e stridenti. Lo stile ironico per me è stato molto frainteso dal pubblico accorso a teatro dal bel faccio di Timi, non c’era da ridere quanto piuttosto da piangere di fronte agli sketch da cabaret in loop, la drammaticità scaturisce dall’estrema superficialità con cui Timi-Giovanni affronta il suo destino, sa che è solo una lenta discesa ma non può cambiare o fermare il suo essere.


Backstage e prova costumi

Dunque uno spettacolo pieno di spunti, così tante mani in pasta nel passato, presente e futuro del mondo che ci si perde nell’analizzarlo, visionario e trascendentale, impossibile da classificare. L’unica nota dolente è il livello emozionale, mai eccessivo senza alcun picco che scandisca il tempo, monotono e ripetitivo, un inesorabile drammatico susseguirsi di eventi che ho osservato dalla mia poltrona senza però ridere o piangere con passione.



Una favola narrata con disincanto, cruda e vera, mascherata a festa con sfarzo, questo è il Don Giovanni di Filippo Timi. 

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