Eccomi a riferire a voi le impressioni che ho avuto sul
“caso” Timi: prima l’incontro con autografo e foto annessi, poi il Don Giovanni - vivere è un abuso mai un diritto; prendiamo come assioma il mio amore per
Filippo, bravo, bello, controverso, debole ma forte, con un passato
travagliato, balbuziente e culturalmente gigantesco. Mi hanno sempre
affascinato le storie non lineari, gli outsider come lui, basti pensare alla mia
passione smodata per De Andrè o ai miei sedici anni in compagnia dei poeti
maledetti, primi fra tutti Baudelaire e Rimbaud, o al fascino oscuro di Carmelo Bene, intrigante.
È naturale quindi che la figura dell’umbro mi attiri, tanto più che sono fissata con la sua voce: ruvida, graffiante, sublime, penetrante, conturbante e possente, che ammalia con una sola sillaba. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e osservarlo da vicino (quasi fosse una specie rara) mercoledì scorso, durante un incontro organizzato dalla Repubblica nella sede di Via La Marmora. A noi venuti ha parlato del Don Giovanni, ma lasciando stare le chiacchiere che son state fatte quello che più mi ha impressionata è stata la sua energia: lui, come è sul palco, così risulta essere in ogni momento, vivo, possente, presente.
Guardandolo mi sembra di rivedere Michelangelo, o meglio non lui, piuttosto le sue pitture, l’uomo che si protende verso Dio, i colori brillanti sono sostituiti però dai toni cupi e gli eccessi luministici di Caravaggio e Tiziano. Un’opera d’arte fuori dal tempo con accenni brutali, quell’estetica non fine a sé stessa e per questo più sublime. Un concentrato di cultura, ingegno, sofferenza e umanità che trasuda da ogni parola, ecco cosa è Filippo Timi.
Il mio interesse per l’attore inizia quando, qualche anno fa, lo vidi al fianco di Crozza mentre interpretava il Trota, poi ancora con lui nei panni di un travestito, e in seguito con la Pandolfi nel film Quando la Notte, di Cristina Comencini. L’anno scorso ho avuto il privilegio di poter assistere, al Teatro della Pergola, all’Amleto², lo spettacolo di prosa più bello in assoluto che io abbia mai visto: ho fatto il pieno di risate e pianti, entrambi veri, sentiti e partecipati, emozioni così forti che non pensavo avrei mai provato a teatro, oltre che con la lirica.
Recitar! Mentre preso dal delirio,
non so più quel che dico,
e quel che faccio!
Eppur è d'uopo, sforzati!
Bah! sei tu forse un uom?
Tu se' Pagliaccio!
Vesti la giubba,
e la faccia infarina.
La gente paga, e rider vuole qua.
E se Arlecchin t'invola Colombina,
ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto
in una smorfia il singhiozzo e 'l dolor
Ah, ridi, Pagliaccio,
sul tuo amore infranto!
Ridi del duol, che t'avvelena il cor!
L’incipit, o meglio l’overture, è superba, il brano è tratto
dall’opera di Leoncavallo, I Pagliacci, qui nella fantastica interpretazione di
Pavarotti, non ci sono parole per descriverla, mi vengono i brividi solo a
parlarne. Dunque un inizio in pompa magna, la scena si apre e sullo sfondo è
proiettato un video di un’anziana signora con trucco acceso e parrucca azzurra mentre
si prodiga in giravolte, è la madre di Timi che danza per lui, la prima vera
donna che Don Giovanni abbia mai amato.
Sul pavimento, illuminato di bianco stile disco ’70, lui dorme sopra un
materasso cruciforme (quasi fosse una morbida punizione la sua vita), le pareti-quinte
coperte da pacchiana imbottitura dorata, primo dato trash l’areoplanino
telecomandato e il suo fastidioso ronzio. Leporello (il servo di Giovanni) tira
una tenda, lo sfondo adesso è un soffitto a cielo aperto con putti, nubi, e un
groviglio di altre figure, degno di un Veronese d’altri tempi.
I costumi sono rivisitati in chiave pop contemporanea (come
tutta l’opera del resto) ma il profumo settecentesco permea ogni fibra, i
tacchi rossi di Luigi XIV ora sono neri, a clessidra e reggono scarpe pastello con
fiocchi esageratamente grandi. Leporello e Ludovico, il servo di Donna Elvira,
indossano costumi identici ma di colori diversi, con culotte fatte da strati di
tulle arricciato che li fanno somigliare a due struzzi (e infatti lo
diventeranno). Sono frivoli, opportunisti, omosessuali, ma hanno un orgoglio,
un loro codice, princìpi e verità che non collimano con il resto del mondo ma
inalterabili e ferrei.
Le donne sono il motore degli eventi e la prima delle tre ad
entrare in scena è Elvira, monaca strappata al convento dal rubacuori, un’
enorme crinolina sorregge l’abito di velluto rosso con balza increspata alla
fine, fiocchi neri e seni appuntiti, ha una doppia volpe sulle spalle a righe
rosse e nere e tiene in mano un coltello; è il simbolo dell’amore passionale,
acceso, cieco, pieno di disperazione e di desiderio, irrazionale al punto che
farebbe follie, tutto questo si esprime con una serie di cazzo, cazzo, cazzo
infiniti ogni volta che calca il palco.
La seconda è Anna, sta per sposarsi, suo padre è ricco e
tutto è già stato stabilito, lei stessa parla a noi e si presenta, la scena è oscurata,
mentre sullo sfondo un video di ginnaste orientali ci delizia con performance
di estrema precisione, simbolo di liberà corporea e oppressione mentale, in
contrapposizione alla condizione di degenza su sedia a rotelle della donna,
costretta più da un peso morale che da un problema fisico. È lei che parla dell’aborto
spontaneo, degli abusi subiti dal padre, un uomo che poco dopo Don Giovanni uccide, la
ragazza quindi piange e si dispera, voleva essere lei a farlo fuori e ne ha nostalgia,
ecco che si alza e, nonostante il peso del ricordo la leghi a terra con due
zattere nere ai piedi alte 30 cm, riesce a muoversi. Così Anna, da timida e impaurita,
diventa dominatrice, simbolo di un amore che nasce dal male e che potrà
continuare solo in modo malato, con sadomaso, frusta sostituita da un nastro per gli esercizi ginnici nero, pratiche sadiche e perfidia ai massimi livelli. Ludovico, completamente
nudo, come fosse un moderno Discobolo, perfetto in ogni sua parte, trascina via
il cadavere dell’uomo, è forse un angelo?
La terza e ultima donna a fare la sua comparsa è Zerlina,
popolana romana, che troviamo a girare su un carillon con indosso una
andrienne in colori pastello molto tenui e genuini su sfondo bianco. Oltre a
richiamare alla mente le porcellane del ‘700, si cita anche la commedia dell’arte
sia nelle movenze che nella caratterizzazione psicologica di lei. Zerlina rappresenta
l’amore sincero, puro, semplice, ingenuo perché ignorante, incontaminato dalle
nefandezze del mondo e quindi più felice. Don Giovanni saprà conquistare pure
lei grazie ad un monologo (anzi il monologo) nel quale spiega come quando una
donna si sposa essa sia legittimata a tradire per dimostrare quanto ami
veramente il marito, ovvero quale prova d’amore sia tornare sempre a casa e
lasciare il piacere dell’amante.
Meravigliose le pellicce che indossa Filippo: adornate da
una cascata di fiori, oppure da parrucche di donne di ogni colore e forma, e
ancora indumenti femminili tutti cuciti insieme, simboli di passate sue prede,
o anche l’accecante rossa e argentata indossata prima della morte. Un’ analogia la trovo con
l’artista americano Nick Cave che di pellicce ne sa qualcosa,come anche con Hirst ad esempio per la conchiglia
diamantata, ma più in generale per l’attitudine contemporanea e provocatoria
dello spettacolo.
Gli intermezzi video, utili a separare una scena dall’altra, sono tremendamente trash e attingono dal pozzo infinito di stranezze che è youtube.
Le luci elettriche accecanti si alternano all’assenza di colore, al buio, ed al bianco più asettico e potente, ricreando, con i toni accesi dell’epoca elettronica, un Manierismo commerciale. La drammaticità degli eventi non è resa tanto dai dialoghi quanto dall’iterazione no-sense degli stessi, spesso infatti si assiste ad interminabili battibecchi che spersonalizzano e trascinano fuori i personaggi, li rendono futili oggetti di un sistema inceppato. L’attualizzazione dell’opera procede su livelli trasversali e le fonti d’ispirazione non sono sempre auliche, ne è un esempio la canzone rivisitata che Timi canta a Leporello per convincerlo a restare, sulle note della Sirenetta.
Sul finale si apre una scena totalmente bianca, dalla bara del padre di Anna esce Lucifero in persona (era lui allora il Discobolo denudato) ovvero Ludovico, in tenuta da generale nazista rosa e azzurra, e sulle note di Lascia ch’io pianga, ci spiega come ucciderà Don Giovanni.
Nick Cave - Soundsuits
Gli intermezzi video, utili a separare una scena dall’altra, sono tremendamente trash e attingono dal pozzo infinito di stranezze che è youtube.
Le luci elettriche accecanti si alternano all’assenza di colore, al buio, ed al bianco più asettico e potente, ricreando, con i toni accesi dell’epoca elettronica, un Manierismo commerciale. La drammaticità degli eventi non è resa tanto dai dialoghi quanto dall’iterazione no-sense degli stessi, spesso infatti si assiste ad interminabili battibecchi che spersonalizzano e trascinano fuori i personaggi, li rendono futili oggetti di un sistema inceppato. L’attualizzazione dell’opera procede su livelli trasversali e le fonti d’ispirazione non sono sempre auliche, ne è un esempio la canzone rivisitata che Timi canta a Leporello per convincerlo a restare, sulle note della Sirenetta.
Sul finale si apre una scena totalmente bianca, dalla bara del padre di Anna esce Lucifero in persona (era lui allora il Discobolo denudato) ovvero Ludovico, in tenuta da generale nazista rosa e azzurra, e sulle note di Lascia ch’io pianga, ci spiega come ucciderà Don Giovanni.
Così cantava anni fa De Andrè, e così finirà l’ammaliatore di cuori, Elvira, Anna e Zerlina, in abiti rossi accesi, lo divoreranno con fauci molto intime. Dopo una pioggia di lustrini rossi argentati muore Don Giovanni; nella scena finale vediamo a sinistra Leporello con code di cavallo al posto delle mani, al centro Satana-Ludovico e a destra un Cristo drogato da due indovene, una per braccio, accasciato su una sedia a rotelle: un quadretto degno di Koons per le provocazioni spensierate e la vena pop, come di Matthew Barney ed i suoi Creamaster per il lavoro svolto sul corpo ed il trasformismo, e pure di Carmelo Bene per le ingenti e a volte gratuite provocazioni.
Creamaster 3
Backstage e prova costumi
Dunque uno spettacolo pieno di spunti, così tante mani in
pasta nel passato, presente e futuro del mondo che ci si perde nell’analizzarlo,
visionario e trascendentale, impossibile da classificare. L’unica nota dolente
è il livello emozionale, mai eccessivo senza alcun picco che scandisca il
tempo, monotono e ripetitivo, un inesorabile drammatico susseguirsi di eventi
che ho osservato dalla mia poltrona senza però ridere o piangere con passione.
Una favola narrata con disincanto, cruda e vera, mascherata
a festa con sfarzo, questo è il Don Giovanni di Filippo Timi.
Nessun commento:
Posta un commento