Due parole sul Riccardo III che ho visto lo scorso
giovedì al teatro della Pergola, con traduzione e adattamento dei testi di Vitaliano Trevisan, interpretato da Alessandro Gassmann, regista e pure scenografo. Sono stata attirata molto dalla locandina: il re stile robot con un braccio artificiale e Anna in velluto porpora distesa su di lui. Siamo arrivati puntuali quella sera, se non in
anticipo, e ho avuto modo di osservare per bene i cartelloni dello spettacolo:
fotografie in tre dimensioni dei personaggi in assetto piramidale, ognuno
pesantemente truccato in bianco con note grottesche e decadenti sui volti
deformati dall’odio e dal dolore.
Finalmente inizia, la scena è divisa in piani d’azione che si compenetrano, ci sono due veli neri semitrasparenti che
spartiscono il palco in destra, sinistra, davanti e dietro, in lontananza si vede ogni tanto una camera di morte, come la chiamo io, una saletta circolare dove il sicario di
Riccardo (Manrico Gammarota) uccide le sue vittime, e tutto si svolge in questo luogo presente ma
inconsistente.
Sul pavimento una riproduzione del labirinto della chiesa di Chartres in Francia, ad indicare che per raggiungere la meta la via facile non porta mai
a nulla di buono, la vita è un continuo cammino a cui non ci si può sottrarre. I
teli che si frappongono tra noi e i personaggi spesso prendono vita con
proiezioni di folle acclamanti, distese di candele, foreste allucinanti, nevicate e guerre. Il tutto
corredato dall’onnipresenza (o meglio l’assenza) di luci geometrizzate e
ridotte al punto che il mondo ricreato appare buio, inconscio, ignoto e cupo. Sì, cupo è l’aggettivo
migliore per rendere l’idea di questo spettacolo: triste, tetro e
freddo dall’inizio alla fine, calcolato con perizia, senza una nota umana o ilare, tutto si distacca,
si ghiaccia nell’attimo in cui si esplica e rimane nell’aria come malessere e
disagio latente.
Per via delle luci avrei detto all’inizio che si ispirasse al
cinema tedesco anni ’20 ( Il gabinetto del dottor Caligari per citarne uno) ma no,
tutto è troppo prospettico, ortogonale, non ci sono tagli, diagonali o colori allucinanti. Certamente gotico, il mondo nightmerico dominato da uno steampunk che lega ogni epoca: abbiamo il Mille, l’anno
in cui i protagonisti vivono, rappresentato dalle donne con lunghi strascichi e cappelli raccolti in reti preziose o nascosti sotto tecnologici bicorni; il Settecento della Rivoluzione Francese, l’Ottocento e il Novecento dell’industria e per finire generali nazisti della Seconda Guerra Mondiale.
Gli arredi sono metallici e squadrettati pieni di bulloni o ferri, una tenda lisa e
sfilacciata incornicia la scena dall’alto. Puzzo di morte e odore di sangue
misto all’umido dei palazzi inglesi è quello che trasuda dalla storia. Si ispira
molto a Tim Burton, dichiara nell’intervista Gassmann, ma quello che ritrovo del
regista eclettico, toni grotteschi a parte, è solo la somiglianza di uno dei personaggi, il suo unico amico (per breve tempo ovviamente) Buckingham, con lo spiritello
porcello ovvero Beetlejuice, manca la nota autoironica, eccessivamente variopinta e
colorata, preponderante nei film dell’americano.
Al contrario qui tutto è avvolto
da una patina di malinconico dolore e vendetta cieca. La recitazione è forte,
potente, ma la grana della voce di Alessandro un pò stona, ferisce nel suo grido ruvido, troppo
alto nelle risate e negli urli folli (forse a ragione esaltati visto il ruolo). Riccardo è un
uomo zoppo si, ma non curvo e basso, è alto, affetto da gigantismo (gli altri in confronto sembrano pigmei, non a caso il cast è stato selezionato anche per la statura ridotta) specchio della sua grande ambizione, la
deformazione esteriore non fa che sminuire quella ancora più grande che sta
dentro di lui: lo spirito sadico alimentato dalla furiosa brama di potere.
Magistrale
il tirapiedi del futuro re, il macellaio, colui che uccide a comando,
bellissimo il suo monologo sull’etica: “l’arte illumina le coscienze” dice, e poi, senza pensarci, uccide ancora. Il primo atto si
conclude con i due, Riccardo ed il sicario, che giocano a palla con la testa di un nemico appena
trucidato, il suo corpo scomposto e fatto a pezzi dentro un sacco assiste
attonito come noi alla macabra scena; tutte quelle morti le ritroverà alla fine, proiettate penzoloni in fila sui teli, accanto un cappio libero: il suo.
La sera prima di morire Re Riccardo ha
un incubo e fantasmi volanti invadono la scena, proiettati dal video, così veri
che sembrava vederli volare per il teatro. Poi arriva il giorno, “il mio regno
per un cavallo”, grida pazzo il re, ma brandisce una spada, mentre il suo avversario, un nazista, con un colpo di fucile lo uccide senza pietà. Questo stesso reclama pace, augura
un futuro duraturo ai suoi figli eredi al trono e ci lascia rendendo epico
lo spettacolo.
Prima che i titoli di coda stile film vengano proiettati ho
il tempo di sviluppare il mio pensiero sull’opera: versione scandalosa e
agghiacciante, di forte impatto e senza scrupoli, capace di lasciarti l’amaro
in bocca che ti fa ricordare quanto sia gradevole il lato dolce della vita. Bel
cast, costumi favolosi, scenografia altrettanto sublime con musica e luci
calibrate alla perfezione, nel complesso mi è piaciuto molto e ha
risvegliato lo spirito critico capace a volte di farmi dire no ad un sì quasi scontato.
Come si è concluso il Riccardo III così vi lascio io, salutandovi con Ray Charls e la sua “I got a
woman”, unico raggio di sole in una valle di tenebre.
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